Anselmo Grotti

Un altro elemento importante dei mutamenti tecnologici vissuti dal cinema (oltre a quelli muto/sonoro; breve/lunga durata; b/n e colore) è stato quello del formato. Eppure, ancor meno che per gli altri aspetti, si fa sufficiente attenzione a tali caratteristiche.

Tralasciando gli aspetti pionieristici e amatoriali, il formato professionale da cui si è partiti è il 16mm, progressivamente raddoppiato, prima a 35mm e poi a 70mm. Di fatto il formato più utilizzato è stato il 35mm, che ha avuto molto successo anche per la fotografia. È evidente che una maggiore ampiezza della pellicola porta una maggiore definizione dell’immagine. Il 70 mm è sei volte più “ricco” del 35mm, ma anche molto più costoso.

È importante anche il rapporto tra larghezza e altezza dell’immagine. Quello “classico” è 4:3, trasferito poi sulle tv e gli schermi dei computer. Successivamente si è passati al 14:9 e poi adesso all’onnipresente 16:9. Un modo di vedere che si è imposto ovunque: gli schermi dei computer, dei tablet, dei telefonini, dei navigatori – quasi una modifica del nostro campo visivo. Da segnalare la curiosa ed esperta scelta del regista cinese Jia Zhang-Ke (Al di là delle montagne, 2015): comincia in 4:3 (due uomini corteggiano la stessa donna; il 4:3 esclude di volta in volta uno dei due), poi 16:9 (nessuno è escluso), infine in cinemascope (il 2,35:1 che dà la sensazione della sconfinata solitudine in Australia).

Il cinema in 3D invece è stata una novità “periodica”: tante volte annunciato e messo sul mercato, non ha mai veramente sostituito il 2D (men che meno nella sua versione televisiva).  Il primo 3D risale nientemeno che a 90 anni fa, mentre il primo uso effettivo nelle sale cinematografiche avviene negli anni Cinquanta. Successivamente si sono avute alcune brevi ondate, soprattutto per certe tipologie di film.