Anselmo Grotti

Nella serie televisiva di fantascienza “Extant” (coprodotta da Spielberg) il protagonista è un bambino che in realtà è un androide indistinguibile da un umano, sia esteriormente che soprattutto grazie alla intelligenza artificiale di cui è dotato. Quando il bambino, Ethan, si distrugge per “altruismo” il suo software ricompare nelle rete dei computer. È scomparso il corpo, non il programma.

Qualcosa di simile è accaduto nella realtà. A Mosca, il 28 novembre 2015 un’auto pirata uccide il trentenne Roman Mazurenko. Oggi la sua coetanea Eugenia Kuyda parla con lui in chat quando vuole. “Roman” adesso è un software che ha assorbito tutto quello che Mazurenko ha scritto, e lo gestisce in modo tale che tutti quelli che lo hanno conosciuto possono “parlare” con lui e ricevere risposte coerenti con la sua personalità. Persino sua madre ne riconosce lo stile. È quasi la versione ipertecnologica di un’antica credenza: il corpo si corrompe ma la sua parte spirituale sopravvive. Solo che in questo caso la “sopravvivenza” è un insieme di frasi che apparentemente hanno un senso ma sono solo strutture sintattiche. Ci si può accontentare di questo simulacro di dialogo? E però: non corriamo il rischio di fare simulacri di dialoghi anche “tra viventi”, nella relazione quotidiana?

Eugenia Kuyda lavora nella Silicon Valley, permanente laboratorio del futuro. Ha ideato “Replika”, uno chatbot (robot con cui si parla) che progressivamente assorbe il nostro linguaggio, le nostre idee. Ha detto: “Mi sono chiesta: possiamo riprodurre la personalità di un utente, a partire da ciò che scrive” … un compagno virtuale che ci legge quasi nel pensiero”.

Segni di una tecnologia cui affidiamo il desiderio di immortalità e di dialogo, e che ci restituisce però solo dei simulacri.